Buongiorno Enrico, grazie per il tuo tempo, vuole presentarsi e raccontare le sfide che ha affrontato a nome di tutte le persone con disabilità?
Io ho 63 anni e per più di 40 anni sono stato un utente della Fondazione Juventute Don Gnocchi (all’inizio si chiamava così), che ha inaugurato la prima comunità alloggio per persone con disabilità grave: è stata una novità importante, maturata anche grazie a delle manifestazioni che avevano come slogan “Nulla su di noi senza di noi”.
Nella Fondazione Don Gnocchi di via Capecelatro, fin dai primi anni ’70, si intravedevano già processi di inclusione sociale. Io ho fatto le scuole partendo all’interno del centro della Fondazione dove venivano anche ragazzi e ragazze normodotate a seguire le lezioni in queste sezioni distaccate dalle scuole pubbliche. Devo dire che i preti che governavano la Fondazione avevano una vista lunga perché furono i primi a dire che bisognava cambiare, che le scuole dovevano attrezzarsi per accoglierci. Da lì partì il pensiero di inclusione, che poi si sviluppò anche sull’aspetto lavorativo.
Considerando il fatto che le opportunità lavorative erano poche, a causa anche di una normativa di settore poco chiara, ho messo in piedi una piccola associazione che si chiamava “Nuovi Orizzonti”, nella quale si facevano piccoli lavori artigianali, anche per conto di terzi. Prendeva così forma una sorta di autonomia, di capacità decisionale e d’intraprendenza verso l’emancipazione: si voleva uscire da strutture, sorte nel secondo dopoguerra, che avevano una dimensione di custodia delle persone fragili, non tanto di integrazione.
Abbiamo cercato di mettere in piedi una comunità vera e propria, in cui l’organo volitivo era l’assemblea delle persone residenti, che dovevano gestirsi con un budget predestinato dalla Direzione Centrale della Fondazione Don Gnocchi.
Siamo andati avanti per 32 anni nonostante le difficoltà, in cui è ha vissuto anche il collaboratore di A.la.t.Ha. Kubrom.
Purtroppo, per motivi economici la Fondazione ha chiuso le comunità che aveva aperto: c’è chi è rientrato nei reparti del centro e chi, invece, ha fatto percorsi diversi, costituendo delle associazioni oppure andando a vivere per conto proprio.
Da qualche anno ho fondato un’associazione chiamata Pro V.I.D. (Promozione Vita Indipendente Persone Disabili), che segue, mirando alla loro emancipazione, persone con disabilità, attenendosi alle linee guida della Convenzione Onu del 2006, ratificata dall’Italia nel 2009, anche se nel nostro paese viene applicata per meno del 25%.
Ci stiamo battendo in questo senso, anche perché l’ultima legge regionale 25/2022 parla proprio di vita indipendente per le persone con disabilità. Il protagonista è la persona disabile interessata da qualsiasi patologia, a prescindere dall’intensità del bisogno assistenziale.
Noi pensiamo che coagulare le risorse sociali con quelle sanitarie sia sufficiente per garantire a una persona con disabilità di scegliere.
Nella mia ottica, del tutto imparziale, la mia opinione è che questo diritto di scelta, che può essere supportato dal progredire della tecnologia, possa essere esteso non solo a chi oggi è una persona disabile, ma anche a quelle che non lo sono ancora diventate, come gli anziani. È un discorso che riguarda tutti i diversi equilibri sociali: bisogna considerare che non è vero che noi siamo una “zavorra” sociale perché, in fondo, se effettivamente riuscissero a essere prese in dovuta considerazione, come fate voi di A.la.t.Ha., le persone con disabilità potrebbero tranquillamente lavorare, produrre, consumare e contribuire al benessere sociale. E tutto ciò deve essere rivisto in un’ottica non solo di inclusione sociale, ma anche di considerazione sanitaria: noi non siamo dei malati, siamo persone che da un punto di vista psico-sociale devono essere considerate tali e che hanno solo bisogno di determinati supporti per sviluppare tutte le loro potenzialità.
Del resto, Alatha stessa, nel suo quasi trentennale percorso, ha dato risposte a problemi come il trasporto delle persone disabili, mettendo a disposizione dei supporti per sviluppare una qualità della vita che sia accettabile per tutti. Una qualità di vita che non riguarderà più solo le persone che nascono con patologie, ma riguarderà la possibilità di scegliere per tutte le persone che diventano anziane o che hanno degli infortuni che gli causeranno delle difficoltà.
Secondo lei, perché molte persone hanno ancora paura, timore nel confrontarsi con una persona con disabilità che viene ancora spesso vista e trattata in maniera compassionevole?
La mia opinione è che abbiamo un fondo storico che aveva una sua ragion d’essere e che noi non possiamo trascurare. Fin dal primo dopoguerra, le persone disabili venivano considerate persone fragili che dovevano essere custodite. Vi sono ancora degli istituti dove vi è il cimitero: le persone disabili, quindi, venivano recuperate e non ne uscivano più, e in qualche modo le famiglie da cui provenivano si sentivano sollevate. Si pensi che nel primo dopoguerra la madre che metteva in vita una persona con diverse patologie era considerata una donna che aveva tradito il marito, per cui Dio la puniva mettendo al mondo un figlio con disabilità. Noi veniamo da lì e questa era una cosa che veniva “accettata”. Poi c’è stata tutta un’evoluzione storica anche grazie a certi preti e Papi, ma noi come società italiana non dobbiamo dimenticarci di queste radici storiche.
Mi ricordo che, quando andavo a scuola e non c’era chi ti assisteva, se dovevi andare in bagno dovevi tenere duro e andare a casa. Una volta successe che una mia compagna di scuola mi chiese “Ma tu la pipì non la fai mai?”, eravamo in quarta ragioneria, e io risposi “Si avrei bisogno, ma non posso”. Così lei mi accompagnò in bagno e si prese nove giorni di sospensione perché era andata nel bagno dei maschi: questo per dire da dove siamo partiti. Di strada ne è stata fatta a livello scolastico, forse un po’ meno su quello lavorativo.
Cos’è cambiato nel mondo dell’informazione di oggi? I media sensibilizzano maggiormente rispetto al passato sui diritti delle persone con disabilità?
Quando parliamo di inclusione sociale io vedo due trasmissioni: 4 hotel e 4 ristoranti. Si fanno tante considerazioni su chi vince e chi perde, ma non ce n’è una che dica se quel ristornate o hotel sono accessibili. Quando ho partecipato a un convegno di albergatori europei, sottolineando questo tema, loro mi guardavano tutti estraniati dicendo che le loro strutture hanno stanze e bagni accessibili. Noi dobbiamo ancora arrivare a considerare l’accessibilità un fatto imprescindibile.
Oggi cosa può fare una persona con disabilità che vuole intraprendere un percorso di vita indipendente? Quali strumenti ha a disposizione/o a chi si deve rivolgere per intraprendere questo percorso?
Oggi a livello nazionale, ma di più a livello lombardo, si stanno mettendo in piedi delle agenzie per la vita indipendente, per cui ci saranno degli addetti che aiuteranno una persona a sviluppare un progetto individuale personalizzato. E tutto ciò dovrà per forza tenere in considerazione il progetto della persona disabile, non potendo prescindere dalla firma dello stesso o da chi lo affianca nel caso di disabilità cognitive. Questo progetto dovrà, altresì, contenere un budget di progetto, da utilizzare per l’assistenza e il trasporto con un pulmino attrezzato. Questo progetto, infine, non sarà definitivo, ma dovrà essere verificabile e modificabile con il passare dell’età della persona.
Per cui è evidente che si va verso una modifica del welfare esistente: è la persona disabile che diventa protagonista, è su di lei che si disegna il suo abito, il suo futuro e destino.
Noi come Ledha (Lega per i diritti delle persone disabili) da tempo ci stiamo muovendo in questo senso ed è per questo: ognuno di noi, con i suoi pregi e difetti, deve avere il diritto di disegnare il proprio destino. Ci sarà una qualità di vita diversa e migliore per tutti.
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