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La paura verso l’ignoto

6 minuti di lettura
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Kubrom è nato in Africa nel 1978, ad Addis Abeba in Etiopia, dove viveva con la nonna, la madre e i due fratelli.

Il basso numero di enti ospedalieri, soprattutto nelle parti rurali del paese, e il fatto che il servizio sanitario fosse privato hanno obbligato la nonna, un’allevatrice, a fare nascere il nipote tramite un parto podalico.

La mamma comprese immediatamente che c’erano stati dei problemi, senza, però, riuscire a dare loro una forma: la sua preoccupazione aumentò a causa della difficile situazione interna del paese, travolto dalla guerra civile, e della scarsità delle risorse mediche.

Alla fine, però, qualcosa si mosse: alcuni emissari italiani presenti in Africa decisero di portarlo in Italia, dove arrivò con la mamma nel 1983, a soli 5 anni.

Per prima cosa Kubrom fece delle visite e scoprì la sua malattia: paralisi celebrale infantile, dovuta al mancato arrivo di ossigeno al cervello durante il parto. La mancanza di coordinazione e un deficit motorio alle gambe e alla parte sinistra del corpo sono state, in questo caso, le conseguenze.

La prima collocazione stabile fu al centro La Nostra Famiglia di Bosisio Parini, in provincia di Lecco, un ente riabilitativo specializzato nell’età evolutiva, e nel 1984 si trasferì definitivamente al Don Gnocchi, grazie al quale Kubrom è riuscito a frequentare la scuola e a integrarsi nel mondo del lavoro, a partire dal 2000, con la sua assunzione presso Alatha.

Dopo questa breve introduzione, abbiamo fatto due chiacchere con Kubrom, cercando di approfondire certi aspetti, soprattutto quelli più delicati, della sua vita.

Cos’è successo a te e tua mamma quando siete venuti in Italia?

Ci siamo separati perché non avevamo, passando da un ospedale a un altro, una dimora fissa e, inoltre, lei non si sentiva in grado di prendersi cura di me: io ero piccolo e non ero ancora consapevole della nostra situazione, ma sicuramente per lei è stato molto difficile.

Mia madre è andata da sua sorella: ora lavora presso una signora in una casa grande e le presta assistenza domiciliare.

Nonostante tutte le difficoltà, è sempre stata presente nella mia vita: pur vivendo separati, ci sentiamo e ci vediamo molto spesso.

Come hai vissuto il periodo della scuola?

Elementari benissimo perché ero spensierato, non avevo messo a fuoco il mio problema perchè quando sei piccolo non ci pensi, così come i miei compagni: ero integrato molto bene.

Alle medie la situazione è leggermente peggiorata, ma ho avuto solo piccoli problemi.

A partire dalla terza media, però, ho vissuto episodi di bullismo: i miei compagni di classe mi facevano i dispetti, per esempio buttandomi giù dalla carrozzina o prendendomi in giro per il mio deficit di apprendimento. Si facevano anche vedere dalle insegnanti, che intervenivano, anche se il tutto ricominciava dopo una settimana.

Nonostante tutto, sono andato avanti, grazie anche alle mie insegnanti di sostegno.

Cosa vorresti dire oggi a questi bulli?

Io, più che a loro, vorrei parlare ai genitori: i bambini devono avere una certa formazione di vita e devono essere educati in modo giusto. Le persone hanno paura di ciò che è diverso perché non lo capiscono: la diversità, invece, è ciò che ci rende Persone.

Il bullo non si sente parte di qualche cosa ed è arrogante: io non trovo giusto quando qualcuno mette in difficoltà qualcun altro. Io sono per il partito di essere sé stessi: io sono contento di essere quello che sono perché non calpesto nessuno, fa parte di me.

Quali sono i lati del tuo carattere che ti piacciono?

Io rispetto le persone ed esterno i sentimenti: mi dispiace che le persone pensino che ci sia un secondo fine, ma è solamente la mia sincerità, poiché vengo da un contesto dove c’è sempre calore umano e per me è facile esternarlo. Sono me stesso e non mi faccio influenzare dalle cose negative: quello che mi è successo mi ha temprato e il Don Gnocchi mi ha aiutato parecchio. Ero piccolo, ma ero già grande, perché la vita mi ha insegnato molto: cerco di mettere in pratica ciò che ho imparato, senza dimenticare mai chi sono.

Sono, comunque, consapevole di avere tanti aspetti da migliorare: probabilmente dovrei volermi più bene e avere più autostima, ma ci sto lavorando.

Da quanto lavori in ALATHA? E come è cambiata la tua vita da quando lavori?

Lavoro in ALATHA da 23 anni: è stata la mia prima esperienza nel mondo del lavoro.

La possibilità è arrivata tramite un’altra persona con disabilità che lavorava nel giornale Cittability di ALATHA: parlò con Donato, che mi diede questa incredibile opportunità.

Ho cominciato, così, una nuova vita, essendo stato per 15 anni dentro un istituto: ho “scoperto” il mondo ed è stato un bell’impatto, difficile ma importante per me. Rispondere al telefono in segreteria e fare da filtro alle chiamate sembrano cose banali, ma grazie a questo ho iniziato a rapportarmi di più con le persone.

Mi sento di ringraziare tutte le persone che mi hanno accolto quando sono arrivato: Sara Levi e Gabriele Peccati, che mi hanno seguito fin dall’inizio, Alberto Vidali, Filomena Bevilacqua e Donato Troiano, che mi ha scelto e mi ha dato fiducia.

Avendo avuto difficoltà nel mondo della scuola, il lavoro mi ha fatto uscire dal guscio.

Quali piani hai per il futuro?

Dopo 35 anni, vorrei uscire dall’istituto e andare a vivere da solo con assistenza: anche se c’è tutto quello che mi serve e mi sono sempre trovato bene, ho bisogno dei miei spazi e di maggiore libertà di azione.

Non è facile trovare una collocazione adeguata, soprattutto per quanto riguarda l’accessibilità, ma sono sicuro che riuscirò a trovare una nuova casa, dando una svolta importante alla mia vita.

Cosa ti fa alzare ogni giorno con il sorriso?

Soprattutto due cose: le belle ragazze (ride) e il fatto di far parte di qualcosa come ALATHA.

Venire in ALATHA è molto importante per me perché non ho degli hobby particolari, a parte guardare cartoni animati giapponesi, e qui sono occupato e do un senso alla mia vita, tagliando il cordone ombelicale dall’istituto e, soprattutto, sentendomi importante per la società.

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